lunedì 21 giugno 2010
legittimazione ad agire nel procedimento di repressione di condotta antisindacale: una questione ancora aperta?
07:32 |
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Retelegale Roma |
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- Legittimazione ad agire nel procedimento ex articolo 28 Stat. Lav.: una questione ancora aperta?
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 04 marzo 2010 n. 5209 (in Guida al Lavoro n. 18-2010), ha affermato che: “In tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell’effettività dell’azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne consegue che al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale –richiesto per legittimare l’azione di repressione antisindacale ex art. 28 Stat. Lav.- assume rilievo, più che la diffusione delle articolazioni territoriali, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e attestano un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio economico dell’intero paese …”.
Il principio elaborato dalla Corte di Legittimità, nella predetta pronuncia, non appare ad opinione di chi scrive convincente.
Alla luce di tale mancata adesione, si rende, allora, opportuno chiarire le ragioni di critica.
* ° *
Il Giudice delle Leggi [1], in anni lontani, ebbe modo di precisare che “la garanzia del libero sviluppo di una normale dialettica sindacale è assicurata dallo Statuto, non solo attraverso il divieto dei sindacati di comodo (art. 17), ma anche e soprattutto attraverso il fondamentale strumento di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto dall’articolo 28, il cui impiego presuppone una dimensione organizzativa –quella nazionale- che, per non essere legata …. alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie perseguite a quel livello. …”.
La Corte Costituzionale, dunque, con la anzidetta pronuncia, ha avuto modo di chiarire che il filtro selettivo richiesto, ai fini dell’azionabilità della procedura di repressione, è ben meno gravoso di quello richiesto (ex art. 19 Stat. Lav.) per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e indi per l’accesso alla legislazione di sostegno.
Appare, allora, evidente che svincolare il requisito della nazionalità, richiesto dall’articolo 28 S.L., dalla stipulazione di contratti collettivi, non può che equivalere al riconoscimento che gli articoli 19 e 28 Stat. Lav. hanno distinti ambiti di operatività e che, indi, l’accesso alla speciale tutela, per la repressione della condotta antisindacale, è basato su un filtro selettivo diverso da quello richiesto dall’articolo 19 S.L..
L’anzidetto principio, oltre ad essere stato reiteratamente affermato in una alluvionale produzione giurisprudenziale, è stato recentemente ribadito anche dalla Corte di nomofilachia[2], la quale, sul punto, ha affermato che:
“su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, … essendo determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che basta lo svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cass. 17 ottobre 1990 n. 10114; 20 aprile 2002 n. 5765; 07 agosto 2002 n. 11833; 26 febbraio 2004 n. 3917; 03 giugno 2004 n. 10616; 10 gennaio 2005 n. 269). … Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola predeterminata categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva. In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un’unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l’operare di scelte, nell’azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiori probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori. … Il carattere intercategoriale dell’associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento di adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 S.L., è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, la dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso, in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un’associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività. …”
Alla luce del predetto principio, ribadito dalla Corte a Sezioni Unite, sembra che il filtro selettivo richiesto dall’articolo 28 Stat. Lav. risulti essere soddisfatto, lì ove, l’organizzazione sindacale, diffusa sul territorio nazionale, svolga un’attività sindacale estesa su buona parte del territorio nazionale: attività sindacale, che non identificandosi e non potendosi identificare esclusivamente nella stipulazione di un contratto collettivo, ben può, dunque, svilupparsi, per la sua poliedricità, in una molteplicità di forme, tra cui l’indizione di scioperi generali o nazionali di categoria, l’indizione di assemblee, la presentazione di piattaforme rivendicative, l’organizzazioni di convegni, la presentazioni di note ed osservazione alla Commissione di Garanzia ecc.
Principi questi che costituiscono orientamento più che consolidato, tanto e che, recentemente, la Corte di Cassazione[3] ha avuto modo di ribadire che la legittimatio ad agendum compete ad associazioni sindacali diffuse sul territorio e che svolgono attività sindacale, non su tutto ma su buona parte del territorio nazionale, “per la promozione degli interessi dei lavoratori, in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali”.
A tali sedimentati principi, a cui si presta integrale adesione, si contrappone un orientamento che ritiene[4] che “espressione nazionale dell’attività sindacale è la stipula di contratti collettivi di quel livello”.
Si tratta di un orientamento che sembra in contrasto con i principi elaborati, dapprima, dalla Corte Costituzionale e, successivamente, ribaditi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[5].
Infatti, l’asserire che il requisito della nazionalità si identifica nella stipulazione con un contratto collettivo nazionale equivale a fornire un’interpretazione dei criteri selettivi di cui all’articolo 28 Stat. Lav. ben più rigorosi di quelli attualmente richiesti dall’articolo 19 della 300-1970, essendo sufficiente, ai fini della costituzione della r.s.a., la sottoscrizione di un contratto di secondo livello.
Ciò, evidentemente, costituisce un principio antitetico a quello, consacrato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, “secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività.”
Tanto è che due pronunce della Corte di Cassazione[6], tra cui quella in apertura, pur ponendosi nello stesso solco della anzidetta pronuncia, hanno cercato di correggere il predetto orientamento, includendo nella categoria dei contratti collettivi utili, ai fini della legittimazione, anche quelli gestionali (seppur un diverso orientamento pervenga ad escluderne la natura di fonte collettiva): “al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale assume rilievo, più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale” ovvero “di un contratto collettivo gestionale … in quanto l’imporre, o contribuire con la propria condotta negoziale a rendere applicabile su tutto il territorio del paese, le regole dettate da detto contratto è indice di una incisiva e concreta effettività della sua specifica forza negoziale … E’ stato statuito da questa Corte di Cassazione che le regole contemplate negli accordi gestionali sono volte a delimitare l’ambito del potere del datore di lavoro concorrendo a disciplinare importanti aspetti del rapporto di lavoro … Detti accordi, inoltre … esprimono la capacità negoziale delle organizzazioni sindacali firmatarie, che è il presupposto per il riconoscimento del diritto di queste a costituire r.s.a. (così Cass. 24 settembre 2004 n. 19271) ”.
Pur tuttavia, appare evidente che tale orientamento si presta alle stesse obiezioni del suo precedente, in quanto esso si pone in contrasto con il principio elaborato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, sostanziandosi nel rendere il requisito di accesso alla procedura, ex art. 28 Stat. Lav., ben più gravoso del filtro richiesto dall’articolo 19 Stat. Lav..
In conclusione, riepilogati i diversi orientamenti, si ritiene, per le ragioni esplicitate, che il principio elaborato dalla Corte di Cassazione a sezione unite appaia preferibile essendo ben aderente all’osservazioni avanzate dalla Corte Costituzionale e allo stesso testo normativo.
Retelegale Roma V. Caponera
[1] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334
[2] Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[3] C. Cass. 06 giugno 2006 n. 13250; 14 marzo 2006 n. 5506
[4] C. Cass. 23 marzo 2006 n. 6429
[5] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334; Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[6] C. Cass. 11 gennaio 2008 n. 520; 09 gennaio 2008 n. 212. Entrambe redatte dal medesimo estensore.
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 04 marzo 2010 n. 5209 (in Guida al Lavoro n. 18-2010), ha affermato che: “In tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell’effettività dell’azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne consegue che al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale –richiesto per legittimare l’azione di repressione antisindacale ex art. 28 Stat. Lav.- assume rilievo, più che la diffusione delle articolazioni territoriali, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e attestano un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio economico dell’intero paese …”.
Il principio elaborato dalla Corte di Legittimità, nella predetta pronuncia, non appare ad opinione di chi scrive convincente.
Alla luce di tale mancata adesione, si rende, allora, opportuno chiarire le ragioni di critica.
* ° *
Il Giudice delle Leggi [1], in anni lontani, ebbe modo di precisare che “la garanzia del libero sviluppo di una normale dialettica sindacale è assicurata dallo Statuto, non solo attraverso il divieto dei sindacati di comodo (art. 17), ma anche e soprattutto attraverso il fondamentale strumento di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto dall’articolo 28, il cui impiego presuppone una dimensione organizzativa –quella nazionale- che, per non essere legata …. alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie perseguite a quel livello. …”.
La Corte Costituzionale, dunque, con la anzidetta pronuncia, ha avuto modo di chiarire che il filtro selettivo richiesto, ai fini dell’azionabilità della procedura di repressione, è ben meno gravoso di quello richiesto (ex art. 19 Stat. Lav.) per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e indi per l’accesso alla legislazione di sostegno.
Appare, allora, evidente che svincolare il requisito della nazionalità, richiesto dall’articolo 28 S.L., dalla stipulazione di contratti collettivi, non può che equivalere al riconoscimento che gli articoli 19 e 28 Stat. Lav. hanno distinti ambiti di operatività e che, indi, l’accesso alla speciale tutela, per la repressione della condotta antisindacale, è basato su un filtro selettivo diverso da quello richiesto dall’articolo 19 S.L..
L’anzidetto principio, oltre ad essere stato reiteratamente affermato in una alluvionale produzione giurisprudenziale, è stato recentemente ribadito anche dalla Corte di nomofilachia[2], la quale, sul punto, ha affermato che:
“su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, … essendo determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che basta lo svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cass. 17 ottobre 1990 n. 10114; 20 aprile 2002 n. 5765; 07 agosto 2002 n. 11833; 26 febbraio 2004 n. 3917; 03 giugno 2004 n. 10616; 10 gennaio 2005 n. 269). … Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola predeterminata categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva. In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un’unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l’operare di scelte, nell’azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiori probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori. … Il carattere intercategoriale dell’associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento di adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 S.L., è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, la dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso, in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un’associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività. …”
Alla luce del predetto principio, ribadito dalla Corte a Sezioni Unite, sembra che il filtro selettivo richiesto dall’articolo 28 Stat. Lav. risulti essere soddisfatto, lì ove, l’organizzazione sindacale, diffusa sul territorio nazionale, svolga un’attività sindacale estesa su buona parte del territorio nazionale: attività sindacale, che non identificandosi e non potendosi identificare esclusivamente nella stipulazione di un contratto collettivo, ben può, dunque, svilupparsi, per la sua poliedricità, in una molteplicità di forme, tra cui l’indizione di scioperi generali o nazionali di categoria, l’indizione di assemblee, la presentazione di piattaforme rivendicative, l’organizzazioni di convegni, la presentazioni di note ed osservazione alla Commissione di Garanzia ecc.
Principi questi che costituiscono orientamento più che consolidato, tanto e che, recentemente, la Corte di Cassazione[3] ha avuto modo di ribadire che la legittimatio ad agendum compete ad associazioni sindacali diffuse sul territorio e che svolgono attività sindacale, non su tutto ma su buona parte del territorio nazionale, “per la promozione degli interessi dei lavoratori, in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali”.
A tali sedimentati principi, a cui si presta integrale adesione, si contrappone un orientamento che ritiene[4] che “espressione nazionale dell’attività sindacale è la stipula di contratti collettivi di quel livello”.
Si tratta di un orientamento che sembra in contrasto con i principi elaborati, dapprima, dalla Corte Costituzionale e, successivamente, ribaditi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[5].
Infatti, l’asserire che il requisito della nazionalità si identifica nella stipulazione con un contratto collettivo nazionale equivale a fornire un’interpretazione dei criteri selettivi di cui all’articolo 28 Stat. Lav. ben più rigorosi di quelli attualmente richiesti dall’articolo 19 della 300-1970, essendo sufficiente, ai fini della costituzione della r.s.a., la sottoscrizione di un contratto di secondo livello.
Ciò, evidentemente, costituisce un principio antitetico a quello, consacrato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, “secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività.”
Tanto è che due pronunce della Corte di Cassazione[6], tra cui quella in apertura, pur ponendosi nello stesso solco della anzidetta pronuncia, hanno cercato di correggere il predetto orientamento, includendo nella categoria dei contratti collettivi utili, ai fini della legittimazione, anche quelli gestionali (seppur un diverso orientamento pervenga ad escluderne la natura di fonte collettiva): “al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale assume rilievo, più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale” ovvero “di un contratto collettivo gestionale … in quanto l’imporre, o contribuire con la propria condotta negoziale a rendere applicabile su tutto il territorio del paese, le regole dettate da detto contratto è indice di una incisiva e concreta effettività della sua specifica forza negoziale … E’ stato statuito da questa Corte di Cassazione che le regole contemplate negli accordi gestionali sono volte a delimitare l’ambito del potere del datore di lavoro concorrendo a disciplinare importanti aspetti del rapporto di lavoro … Detti accordi, inoltre … esprimono la capacità negoziale delle organizzazioni sindacali firmatarie, che è il presupposto per il riconoscimento del diritto di queste a costituire r.s.a. (così Cass. 24 settembre 2004 n. 19271) ”.
Pur tuttavia, appare evidente che tale orientamento si presta alle stesse obiezioni del suo precedente, in quanto esso si pone in contrasto con il principio elaborato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, sostanziandosi nel rendere il requisito di accesso alla procedura, ex art. 28 Stat. Lav., ben più gravoso del filtro richiesto dall’articolo 19 Stat. Lav..
In conclusione, riepilogati i diversi orientamenti, si ritiene, per le ragioni esplicitate, che il principio elaborato dalla Corte di Cassazione a sezione unite appaia preferibile essendo ben aderente all’osservazioni avanzate dalla Corte Costituzionale e allo stesso testo normativo.
Retelegale Roma V. Caponera
[1] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334
[2] Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[3] C. Cass. 06 giugno 2006 n. 13250; 14 marzo 2006 n. 5506
[4] C. Cass. 23 marzo 2006 n. 6429
[5] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334; Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[6] C. Cass. 11 gennaio 2008 n. 520; 09 gennaio 2008 n. 212. Entrambe redatte dal medesimo estensore.
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