mercoledì 20 gennaio 2010
Recentemente, si sono registrate, sulla questione in oggetto, una pluralità di pronunce che hanno riconosciuto, in contrasto con un primo orientamento, il diritto delle organizzazioni sindacali, non firmatarie del c.c.n.l., a percepire il versamento dei contributi sindacali, per tramite dell’istituto della cessione di credito.
Invero, sia la Corte di Appello di Torino (Corte di Appello di Torino sentenza n. 24-2009), sia il Tribunale Ordinario di Firenze (Tribunale Firenze, Dott. Bazzoffi, 08 giugno 2006) sia il Tribunale Ordinario di Velletri (Tribunale Velletri decreto 04 giugno 2009; decreto 20 ottobre 2009), sia il Tribunale Ordinario di Roma (T. Roma 16 novembre 2007; T. Roma sent. 23 giugno 2008; T. Roma decr. 05 maggio 2009), sia il Tribunale Ordinario di Torino (Tribunale Torino 17 dicembre 2005; Tribunale Torino, Dott.ssa Visaggi, 16 giugno-12 agosto 2006), che il Tribunale di Bologna, sezione fallimentare (Trib. Bologna sez. fall. decr. 29 aprile 2009) hanno concordemente affermato che il D.P.R. 180-1950, nella versione novellata non pone un generale divieto di cessione, consentendo, per tramite dell’articolo 52, ai lavoratori dipendenti di utilizzare lo strumento della cessione del credito per il versamento dei contributi sindacali.
Alla luce di ciò, sembra opportuno ricostruire, seppur brevemente, la questione in oggetto, partendo dall’esame delle alterne vicende giudiziarie, conclusesi con la nota pronuncia a sezioni unite.
Come è noto, la Corte di Legittimità, con le pronunce del 3 febbraio 2004 n. 1968 e del 3 giugno 2004 n. 10616, avevano totalmente disatteso l’asserita riconduzione dei contributi sindacali nell’alveo dell’istituto della cessione di credito. Ciononostante, la medesima Corte di legittimità, con le pronunce del 24 febbraio 2004 n. 14032 e del 26 luglio 2004 n. 14032, ebbe modo di correggere il pregresso orientamento, così riconoscendo l’utilizzabilità dello strumento della cessione di credito, con argomentazioni che appaiono, ad opinione di chi scrive, ben più coerenti sia, con la volontà che venne espressa dai proponenti il referendum e che venne posteriormente consacrata dal Giudice delle Leggi sia, con i principi insiti nel nostro ordinamento giuridico , tra cui “l’interesse, legislativamente protetto (ex art. 26, I comma, L. 300-1970), del sindacato a ricevere le quote sindacali”, e il principio costituzionale del libero esercizio e sviluppo dell’attività sindacale.
Invero, sembra che la Corte di Legittimità, dichiarando l’utilizzabilità dell’istituto della cessione, abbia correttamente riportato l’intera vicenda nel solco delineato dal Costituente, così elidendo qualsivoglia “discrimen” tra sindacati firmatari e non del contratto collettivo di diritto comune e, in tal guisa, riconoscendo il diritto del lavoratore a sostenere il sindacato prescelto come il più vicino alle proprie inclinazioni .
Certo è che, la Corte di Legittimità, in funzione di nomofilachia, ha posto fine al surriferito contrasto giurisprudenziale, legittimando il ricorso, da parte dei lavoratori, all’istituto civilistico della cessione del credito: “Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell’art. 26 della L. 300 del 1970 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato –cessione che non richiede in via generale il consenso del debitore- richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso…”.
Principio, questo, che è stato successivamente, alla pronunzia resa a Sezioni Unite, ribadito dalla stessa Corte di Cassazione in tre distinte e successive pronunce. D’altronde, se così non fosse si attribuirebbero al referendum effetti propositivi, che, come è noto, sono alieni con la natura dell’istituto.
Pur tuttavia, essendo la Corte di Cassazione a sezioni unite intervenuta su fattispecie anteriore alla novellazione operata al D.P.R. 150-1980, si pose, immediatamente, il problema di verificare se l’impianto normativo della 180-1950, come risultante dalla novellazione ed interpolazione operata dapprima dal legislatore della 311-2004 e successivamente dal legislatore della 80-2005, abbia o meno posto in essere un generale divieto di cessione, ad esclusione di quelli mirati ad estinguere i prestiti contratti con istituti finanziari autorizzati.
Dopo un primo iniziale momento (pronunce del T. Torino, Ascoli Piceno e Novara), la giurisprudenza di merito, rilevando che la ratio del d.p.r. 180-1950, come risultante dalle modifiche introdotte dal legislatore della 2004 e della 2005, risiede nella esigenza di contrastare efficacemente il fenomeno dell’usura ed osservando che l’articolo 52, del d.p.r. 180-1950, non opera alcun riferimento, né esplicito né implicito, ai prestiti contratti, ha mutato radicalmente indirizzo, così riconoscendo l’ammissibilità del pagamento dei contributi sindacali per tramite della cessione di credito.
Di certo, il contrasto esistente in sede giurisprudenziale rende auspicabile una pronuncia della Corte di Cassazione al fine di rimuovere qualsivoglia dubbio sulla praticabilità dell’istituto della cessione quale mezzo teso a consentire alle organizzazioni non firmatarie il conseguimento dei contributi sindacali.
Vincenzo Caponera - Rete Legale Roma

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